Il narratore onnisciente è morto, viva il narratore onnisciente!
Fino a pochi anni fa sembra essere fuori modo, un relitto dell’Ottocento, ma negli ultimi anni qualcosa sembra cambiato.
In questa lezione analizzeremo da vicino il narratore onnisciente, scopriremo «come funziona», come lo si può riconoscere, e anche quando e perché servirsene se si sta scrivendo o si vuole farlo.
Vedremo infine di rubare qualche trucco del mestiere a tre grandi romanzieri del nostro tempo: Don DeLillo, Jonathan Franzen e Roberto Bolaño.
Io sono Felice Lanzaro, e da più di 3 anni su questo blog racconto a migliaia di scrittori, aspiranti tali o appassionati di letteratura le tecniche narrative che stanno dietro le storie più avvincenti, e oggi iniziamo subito rispondendo alla domanda che ti starai facendo.
Chi è (davvero) il narratore onnisciente?
C’è una prima, grossa distinzione da fare, e cioè quella tra i diversi tipi di narratore:
- Il narratore interno è un personaggio della storia, di solito ha un punto di vista limitato alla propria soggettività, cioè racconta solo ciò che conosce.
- Il narratore esterno è estraneo alla storia e può limitarsi a raccontare ciò che un certo personaggio sa o, invece, può assumere un punto di vista onnisciente.
Tra poco torneremo sulla fondamentale questione del punto di vista, ma intanto possiamo rispondere alla domanda da cui siamo partiti.
L’etimologia della parola onnisciente già ci dice tanto: è composta dal prefisso «omni-», che in latino significa «tutto», e dal verbo scire, «conoscere».
Il narratore onnisciente è letteralmente chi sa tutto, anche più di ciò che si vede.
Immaginalo come una divinità che guarda le cose dall’alto, ha la vista ai raggi x per i pensieri altrui, e tiene tra le mani un telecomando per andare avanti e indietro nella storia.
Come si capisce se il narratore è onnisciente?
Ora, abbiamo stabilito di chi stiamo parlando, ma adesso dobbiamo capire come riconoscerlo. Tutto sta nel farsi un po’ di domande mentre stai leggendo:
- Qual è il punto di vista di chi racconta? In letteratura, quando si analizza il punto di vista da cui è narrata una storia, si parla di focalizzazione. Quando ci troviamo davanti un narratore onnisciente la focalizzazione è zero.
- Quante voci senti? No, non è che sei impazzito. Intendo: quante voci si alternano nel romanzo o nel racconto? Sentiamo sempre la stessa persona, anche se racconta la storia di diversi personaggi? Se sì, eccolo là, il narratore onnisciente.
- Esiste qualcosa che il narratore non sa? Il narratore onnisciente sa quello che è accaduto e quello che accadrà, sa ciò che i personaggi pensano o provano, e può anche passare dalla testa di un personaggio a quella di un altro – ma questo, come vedremo, può essere pure un rischio.
Quella del narratore onnisciente, per usare un termine tecnico, è una focalizzazione zero.
Lo focalizzazione è nient’altro che il punto di vista, l’inquadratura attraverso cui ci viene raccontata la storia.
Può essere interna o esterna, ma quando è zero coincide con quel punto di vista dall’alto di cui parlavamo e che permette, appunto, al narratore onnisciente di sapere tutto di tutti.
Se la focalizzazione è interna o esterna c’è sempre un limite, ovvero l’angolatura che ci offre un singolo personaggio, sia narratore interno o esterno è indifferente.
Quando è zero, invece, è come se il punto di vista fosse diffuso. Il narratore può assumere la prospettiva di molteplici personaggi, addirittura anche raccontare lo stesso fatto da più prospettive.
Non però detto che questa sia sempre la scelta giusta, se vuoi scrivere un libro o un racconto.
Quando e perché scegliere la narrazione onnisciente?
Abbiamo iniziato dicendo che fino a pochi anni fa si considerava l’onniscienza nei romanzi un po’ démodé.
C’è però chi, come il critico letterario Paul Dawson, sostiene ci sia un ritorno del narratore onnisciente nel romanzo contemporaneo – e lo fa, in particolare, nel suo saggio The Return of Omniscience in Contemporary Fiction, che si può leggere qui.
Successivamente vedremo da vicino anche alcuni esempi di onniscienza nella narrativa di oggi, ma prima soffermiamoci sui motivi per cui uno scrittore potrebbe scegliere proprio un narratore onnisciente. Li voglio sintetizzare in tre parole-chiave:
- Molteplicità. La vita è una faccenda complessa, e cioè, oltre che complicata, anche fatta di ambiguità. I narratori onniscienti possono essere ottimi strumenti per restituire quest’ambiguità, e magari mescolare le carte, magari far vedere la realtà da diverse angolature, magari mostrare come lo stesso evento diventi altro filtrato da diversi occhi.
- Intreccio. E qui per intreccio intendo sia trama che collegamento, rapporti. Un narratore onnisciente sa tutto, dunque può distillare le informazioni come meglio crede per generare suspence. E può mettere in luce le relazioni tra i diversi personaggi, far emergere anche ciò che è meno evidente.
- Profondità. Ultimo ma non ultimo: ci può condurre nei meandri della psiche dei personaggi, scrutare da vicino le loro azioni, le loro contraddizioni, e quanto di più nascosto hanno. Possiamo, insomma, scendere davvero in profondità e ottenere una visione completa del mondo che stiamo conoscendo.
I tre errori che i narratori onniscienti non devono commettere
Da grandi poteri derivano però grandi responsabilità. E quello del narratore onnisciente è decisamente un grande potere, che potrebbe indurti a commettere degli errori.
Errori in grado di rovinare qualsiasi storia, vanificare ogni sforzo di stile e di narrazione. Possiamo provare a elencarne alcuni, mantenendo sempre la cabala del tre,
- Non saltare da una testa all’altra. Potenzialmente potresti raccontare ogni scena dal punto di vista di un personaggio. Potenzialmente, ma devi sapere cosa stai facendo. Altrimenti rischi di produrre nient’altro che una gran confusione.
- Non annoiare con troppe descrizioni. Sapere tutto non significa dover dire tutto. Tanti romanzi scritti in terza persona onnisciente hanno questo difetto, e cioè si perdono in lunghissime e prolisse descrizioni di paesaggi, personaggi e azioni.
- Non mettere a tacere i personaggi. Nel senso: non prendere il loro posto. È importante che comunque emerga qual è il loro singolo punto di vista, quali sono i loro pensieri, e non solo cosa pensa il narratore.
Tre esempi di narratore onnisciente che devi conoscere
Guerra e pace di Lev Tolstoj, Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, e ovviamente i Promessi sposi di Alessandro Manzoni sono esempi classici di narratore onnisciente, che spesso si sono fatti e vengono fatti.
Se però, come abbiamo detto, negli ultimi anni c’è stato un ritorno a questa forma di racconto, quali possono essere degli esempi più recenti? Esempi, cioè, che possano anche far capire come si usa il narratore onnisciente oggi, secoli dopo Austen, Tolstoj e Manzoni.
Ne ruberò alcuni a Filippo Pennacchio, studioso che su questo tema ha scritto cose molto interessanti, e che in un articolo comparso prima in rivista e poi su Le parole e le cose cita, tra gli altri, tre testi fondamentali della letteratura dei nostri anni.
Underworld di Don DeLillo
Underworld, il libro più famoso di Don DeLillo nonché tra i cardini della letteratura postmoderna, prende le mosse dal leggendario fuoricampo di Bobby Thomson, esterno dei New York Giants.
Quel tiro, passato alla storia come «the shot heard ‘round the world», «il colpo che si è sentito in tutto il mondo», e che diede ai Giants la vittoria contro i rivali dei Brooklyn Dodgers, diventa lo spunto narrativo del romanzo.
La pallina colpita da Thomson, che passa di mano in mano, è il filo rosso che intreccia un racconto corale, ma tutto prende spunto da un prologo, così definito da DeLillo in un’intervista al New Yorker:
[…] è scritto con una sorta di super-onniscienza. Ci sono frasi che possono iniziare in una parte del campo da baseball e finire in un’altra. […] viaggiano dalla mente di una persona all’altra. L’ho fatto principalmente perché era piacevole. È stato il baseball stesso a fornirmi una sorta di libertà che forse non avevo mai sperimentato prima. Era il gioco.
Esercizio per casa: leggerlo, da cima a fondo. Lo trovi qui. Fammi sapere che ne pensi.
Le correzioni di Jonathan Franzen
Un altro capolavoro della più recente letteratura statunitense, Le correzioni di Jonathan Franzen, è anche un altro caso di studio su come il narratore onnisciente possa abitare il XXI secolo.
Inizia così, con quello che Pennacchio descrive come un «sorvolo ottico attraverso cui siamo introdotti a St. Jude, la location principale del romanzo»:
Un fronte freddo autunnale arrivava rabbioso dalla prateria. Qualcosa di terribile stava per accadere, lo si sentiva nell’aria. Il sole era basso nel cielo, una stella minore, un astro morente. Raffiche su raffiche di entropia. Alberi irrequieti, temperature in diminuzione, l’intera religione settentrionale delle cose era giunta al termine. Neanche un bambino nei giardini. Ombre e luce sulle zoysie ingiallite. Querce rosse e querce di palude e querce bicolori riversavano una pioggia di ghiande sulle case senza ipoteca. Le controfinestre rabbrividivano nelle stanze da letto vuote. E poi il ronzio monotono e singhiozzante di un’asciugabiancheria, la contesa nasale di un soffiatore da giardino, il maturare di mele nostrane in un sacchetto di carta, l’odore della benzina con cui Alfred Lambert aveva ripulito il pennello dopo la verniciatura mattutina del divanetto di vimini.
E continua, poi, «raccontando in modo minuzioso la vita interiore dei personaggi protagonisti, e si conclude con una riflessione intorno alla crisi del mercato finanziario nei primi anni Duemila».
2666 di Roberto Bolaño
Il mastodontico 2666, romanzo fluviale in cinque parti, che tutte a modo loro girano intorno alla città messicana di Santa Teresa e a dei misteriosi omicidi di donne che lì avvengono, è un ancor più particolare caso da studiare.
Nella sua Nota a la primera edición, apparsa nel 2004, il critico letterario spagnolo Ignacio Echevarría riferisce che, in un appunto isolato, Bolaño avrebbe scrittore che il narratore di 2666 è Arturo Belano.
È, cioè, lo stesso Arturo Belano, personaggio in Detective selvaggi, già narratore in Stella distante, e alter ego di Bolaño stesso.
In 2666 è una terza persona che parla, e sempre Pennacchio, in un altro saggio, nota come Bolaño «utilizza tre modi per raccontare»:
[…] nella prima e nella quinta parte del romanzo i contenuti sono mediati da un narratore collocato ‘sopra’ il mondo della storia, che può leggere nella mente dei personaggi, è in grado di muoversi senza restrizioni nel tempo e nello spazio e spesso esprime il suo punto di vista sui fatti narrati. Un narratore, in altre parole, pienamente onnisciente.
Il narratore, nella seconda e la terza parte, «arretra» e si mimetizza dietro i rispettivi personaggi principali, Amalfitano e Fate. Nella quarta parte, invece, diventa una sorta di telecamera che registra la sequela di femminicidi a Santa Teresa.
Le parole però non bastano a descrivere la meraviglia di questo romanzo. Fatti un favore, prendilo subito e leggilo. Sarà un’esperienza indimenticabile.
Dunque, siamo alla fine, e direi che ci possiamo lasciare con un ultimo esercizio: leggi questi tre romanzi, o almeno uno dei tre, e vedrai con i tuoi stessi occhi il narratore onnisciente in gioco. E, se ti va o se li hai già letti, condividi pure le tue impressioni tra i commenti.